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al testo di Romana Ricciardi
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Avevo esattamente diciotto anni quando un giorno, improvvisamente, il mondo mi cascò addosso. Bastò una telefonata e la mia infanzia finì nel cesso, senza che avessi neanche il tempo di tirare lo sciacquone. Frequentavo l'ultima classe di liceo e non avevo la benché minima idea di che cosa avrei fatto in seguito. Ricordo che l'anno precedente, quando mio fratello doveva scegliere la facoltà universitaria, in casa non si parlava d'altro e ora che toccava a me, silenzio. Forse mio padre pensava che ci fosse ancora del tempo, ma si sbagliava. Un pomeriggio come tanti, nonostante il fatto che in quegli ultimi tempi avessimo discusso spesso a causa di una mia fase acuta di ribellione adolescenziale, prima che uscisse ci salutammo con un abbraccio. In quel momento pensai che gli volevo bene. Ovviamente, non glielo dissi. Fu l'ultima volta che lo vidi vivo. Dunque, con un padre appena morto, una madre debole ed un fratello stronzo, il numero delle opzioni riguardanti il mio futuro era diminuito drasticamente. Dicono che il dolore unisce le persone. Vero niente. Il dolore è egoista, pensa solo a sé stesso. Allora presi esempio. Regola numero uno: non credere che ci sia sempre tempo, non è detto. Regola numero due: se vuoi bene a qualcuno, non avere paura di dirlo. L'amore è un vanto. Mai, una vergogna. Regola numero tre: non guardarti indietro più del necessario, soprattutto se fa male. La vita va avanti. Tu, seguila. Fu così che lasciai città, casa e famiglia. Mi iscrissi all'università, trovai un lavoro part-time e una stanza in affitto. Poi laurea, matrimonio, maternità ( non in quest'ordine, ad essere sincera). Sono passati un po' di anni e di merda ne ho dovuta spalare. Non sono più tanto giovane, non più tanto bella, non più tanto innocente. Ma sono viva, cazzo. E sono io.
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